Quando parliamo di affinamento del vino, bisogna capire innanzitutto cosa c’è dietro le scelte delle aziende vitivinicole: fare vino è un processo che inizia con i frutti (l’uva) e termina con il vino.
Una volta terminata la fase di gestione della vigna, durante tutte le sue fasi dalla dormiente, alle potature, al germoglio, alla crescita dei frutti ed infine il raccolto, le uve vengono processate e preparate per la fermentazione alcolica, durante la quale ad un certo punto i lieviti inseriti nel mosto convertono lo zucchero in alcol; una volta completato questo processo ed eventuali altri più o meno lunghi, il vino viene conservato in contenitori differenti che dipendono soprattutto dal rapporto che voglio far avere tra vino ed ossigeno, con conseguenze stilistiche differenti.
Durante i processi di macerazione e fermentazione si possono utilizzare contenitori in acciaio, il quale è un materiale inerte, che permette di ridurre il contatto con l’ossigeno e mantenere tutti gli aromi primari (quali frutti, fiori, ed erbacei ad esempio), scelta in parte stilistica.
Una volta terminati i processi sopracitati, si passa alle fasi successive quelle di affinamento del vino, non per tutti i vini sul mercato, ma per molti l’affinamento è quel processo di riposo in contenitori che permettono un tipo di contatto con l’ossigeno controllato, e che a seconda del materiale utilizzato e del tempo lasciato, aiuterà a sviluppare determinati sentori raggiungendo complessità importanti, cambiare il colore, o ancora più spesso aiuterà a smorzare e ad ammorbidire certi tannini ancora non pronti tipici di alcuni vitigni, come ad esempio nel caso di uve Nebbiolo o Sangiovese.
I contenitori più conosciuti per gli affinamenti del vino sono: il legno, che a seconda della provenienza se Europeo o Americano, e successivamente al grado di tostatura e dimensioni, darà risultati sorprendentemente diversi; il cemento, il quale spesso permette la regolazione della temperatura durante la maturazione, senza l’uso di attrezzature troppo costose; oppure le anfore in terracotta, sul quale ci vorremmo soffermare in questo breve testo.
Affinamenti in anfora, cenni storici ed usi
Questo tipo di materiale utilizzato per l’affinamento, è in auge già dai tempi più antichi in zone come l’Armenia e la Georgia, fino ad espandersi in tutto il bacino mediterraneo. Grazie agli Etruschi l’uso della terracotta si diffuse in Italia, mentre nell’era della Magna Grecia l’uomo utilizzava la terracotta in generale per conservare il vino.
Negli ultimi anni, l’uso di questo materiale ha avuto un’impennata, poiché rispetto ad altri contenitori assicura un controllo delle temperature in modo naturale, soprattutto se anfore interrate, garantendo una buona ossigenazione, quando non vengono rivestite di cera d’api, e soprattutto per coloro che sono alla ricerca di una caratterizzazione olfattiva più tipica della varietà d’uva non trasmette aromi o sentori come invece legno rilascia.
La terracotta infatti non cede aromi tipici come la botte in legno, ma permette si la microssigenazione (uso dell’ossigeno in fermentazione e/o in maturazione prima citato) ma non ne modifica l’aspetto organolettico, mantenendo quindi il profilo indentitario del vino.
In generale favorisce anche l’uso di lunghe macerazioni e un uso minore di solforosa, infatti spesso chi lavora a regime biologico o biodinamico, utilizza questo tipo di materiale per gli affinamenti.
Il vino affinato in anfora prevede in generale più lavoro manuale, per questo motivo si attribuisce spesso a chi lavora in regime biodinamico: le uve vengono già messe a fermentare in anfore di terracotta, interrate o no, dove durante questo processo avviene naturalmente la macerazione sulle bucce con la conseguente estrazioni di composti organici utili a definire il profilo aromatico del vino ed a definirne i colori più o meno intensi. Il maggiore contesto polifenolico nel vino riduce il rischio di ossidazioni, inoltre la macerazione apporta al vino maggiore complessità aromatica e strutturale.
L’interramento poi, permette una costante condizione termica favorevole, essendo la terra un isolante naturale, favorendo cosi l’azione dei lieviti naturalmente durante la fermentazione.
Solitamente si fa rimanere il vino in anfora per circa 6 mesi, spesso si lasciano durante l’estate, infatti in Georgia, terra madre della produzione in anfora, i contenitori venivano interrati fino alla primavera successiva, per consentire prima la fermentazione e poi l’affinamento.
Questi contenitori hanno altri elementi favorevoli: la durata nel tempo del materiale stesso, ovvero non necessitano una sostituzione dopo svariati usi come invece la botte esige, che dopo alcuni passaggi non cede più i sentori ricercati di alcuni produttori; infine la terracotta come materiale di per se, previene il propagarsi di microrganismi e batteri che vivono nelle bucce come i brettanomyces, dannosi al profilo organolettico del vino.
La produzione in anfora in Italia
Il produttore simbolo dei vini in anfora con macerazioni lunghe e’ Josko Gravner, che già all’inizio degli anni 2000 inizio’ a produrre vini in anfora in stile georgiano, ci troviamo al confine tra Italia e Slovenia, 15 ha in parte di territorio italiano e in parte sloveno.
La sua rinomata ribolla gialla, con vigneti rigorosamente allevati ad alberello per permettere alle piante di essere arieggiate ed avere una produzione limitata, fermenta con i raspi dopo essere stata pulita manualmente, e poi passa in anfora dove avviene sia la fermentazione alcolica che la conversione malolattica.
Lunghi affinamenti e risultati straordinari con i suoi vini corposi, caldi e avvolgenti.
Altro produttore degno di citazione per i suoi passaggi in anfora è Francesco Cirelli, in Abruzzo, produce Montepulciano, Trebbiano e Cerasuolo. Produce due linee, una base utilizzando cemento e acciaio, e la produzione in anfora con 22.000 bottiglie all’anno: un montepulciano che mantiene le caratteristiche primarie di freschezza e profumi rossi, con un cenno profumato di rusticità e terrorista’ data proprio dal materiale di affinamento ed interrato.
Un ultimo piccolo produttore che sposa l’anfora come materiale di affinamento, con 5 ha di vigneti sparsi nella Liguria del Levante, Daniele Parma con l’azienda La Ricolla, nel comune di Ne.
“Le bucce sono i miei lieviti, il tempo il mio chiarificante, le fecce i miei solfiti la Terracotta è il mio legno…” cosi definisce i suoi processi Daniele Parma, utilizzando le anfore come contenitori per fermentazioni ed affinamenti, con l’obiettivo di ottenere vini indentitari, pregni del proprio carattere, varietale ed individuale. “Le anfore,…” scrive Sofia Bandoni di Daniele Parma e i suoi vini, “…restituiscono realismo di vini espressivi, e cesellano il profilo di vini fini, dritti, e tesi. Nessuna rotondità e nessuna morbidezza di matrice legnosa….che si riappropria della sua personale ed unica tridimensionalità…”
Con la sua filosofia in vigna e poi tecniche di affinamento in anfora, da origine a vini tipicamente con uve autoctone del levante ligure particolarmente longevi.
Oggi i vini in anfora Georgiani, sono inseriti dall’UNESCO nella lista dei patrimoni culturali dell’umanità.
In Georgia non c’era vino senza anfora, I QVEVRI, ovvero i recipienti in terracotta chiamati cosi in questo paese, vengono ancora oggi riempiti con il mosto d’uva, ed interrati fino alla primavera successiva, per consentire la spontanea fermentazione ma con un controllo della temperatura poiché sotto terra, utilizzato sia per i vitigni a bacca bianca che per quelli a bacca rossa.